Era un afoso pomeriggio di settembre, avevo accompagnato un caro amico a uno dei momenti più solenni e malinconici della sua vita: il funerale del suo fido compagno, il nobile felino Brunori de Bergerac. Il caro animale, la cui resilienza e spirito guerriero erano famosi tra tutti i suoi conoscenti, aveva lasciato questo mondo, e la cerimonia, colma di affetto e riverenza, si concluse con la raccolta delle sue ceneri in un’urna decorata con eleganza. Dopo tali eventi, il nostro spirito, gravato da un peso, cercava rifugio, e il destino ci portò a un’osteria in campagna: "Il Cinotto", un nome che pareva echeggiava fra le strade polverose di quella regione.
Giunti in questo angolo remoto, l’osteria si presentava semplice, modesta, quasi dimenticata dal tempo, ma colma di un fascino che solo i luoghi antichi sanno possedere. Una vetrata faceva da anticamera, evocando come una misteriosa atmosfera da bosco incantato. Ci accoglieva l’oste, un vecchio dall’aria svitata, con i capelli bianchi ordinati e dallo sguardo vigile e scaltro. In quel momento non potevamo immaginare che quell'uomo, all’apparenza strano e attempato, si sarebbe rivelato una delle anime più gentili e accorte mai incontrate.
Ci sedemmo, guardandoci attorno. Poche persone frequentavano il locale, per di più ordinarie famiglie e qualche vetusto viandante reso allegro dall'alcool. Tra loro, spiccava un certo Luiz, un signore dai capelli grigi raccolti in un codino, noto, pare, per le sue gesta come archeologo universitario, e che scoprimmo essere un abituale frequentatore del Cinotto. Si muoveva con la confidenza di chi conosceva ogni angolo di quel posto e quando ci sedemmo ci rivolse un cenno cordiale.
Appena accomodati, con grande sorpresa non ci venne offerto alcun menù. L’oste, con fare quasi maniacale, ci disse che avremmo mangiato ciò che lui aveva deciso, sghignazzando con Luiz e facendoci ampi gesti accomodanti. Io e il mio amico ci scambiammo uno sguardo, incerti, forse anche leggermente infastiditi da quell’arbitraria decisione. Ma un non so che nella sua voce, come un richiamo del destino, ci convinse a fidarci. In fondo, eravamo qui per un motivo ben più profondo: non solo per placare i morsi della fame, ma per onorare la memoria di Brunori.
Il pranzo cominciò con primi di pasta e crostacei freschi, preparati con semplicità e maestria. Ogni boccone sembrava racchiudere il sapore del mare, del vento e delle onde. Seguì la carne, un coniglio tenero e succulento, accompagnata da contorni che esaltavano ogni sapore. Lo strano menù di mari e monti era un oblio di gustosità; il mio compare saggiò invece gli gnocchi, poi la parmigiana e infine il Vermentino, dorato e luminoso, che scivolava nei calici come nettare, portando con sé la freschezza delle viti bagnate dalla rugiada del mattino. E, sul finire, un dolce della casa, semplice e delizioso, che riportava a quei sapori autentici di un tempo che fu.
Mentre mangiavamo, il vecchio oste ci raccontò, con voce rotta dalla nostalgia, che quel giorno sarebbe stato l’ultimo per il Cinotto. Dopo tanti anni, la sua avventura volgeva al termine, e quell’osteria che aveva visto passare generazioni di clienti, ormai chiudeva le sue porte per sempre. Quell’annuncio ci colpì profondamente. C'era una strana somiglianza tra quell’ultimo pasto ad un desco morente e l’addio che avevamo appena dato a Brunori de Bergerac. Come se ogni cosa, quel giorno, fosse avvolta da una malinconia sottile, eppure necessaria. Anche le grandi anime hanno un tempo limitato in questo mondo.
Giunti all’ultimo brindisi, ci alzammo in piedi con i calici di limoncello in mano, uno dei più buoni che avessi mai assaggiato, il liquore fresco e dolce sembrava racchiudere tutto il calore di quel luogo. Alzammo i bicchieri e brindammo, solennemente, al vecchio amico Brunori, ormai destinato a entrare nel regno dei ricordi.
L’atmosfera, alla fine del pranzo, era una strana miscela di malinconia e gratitudine. Non era stato solo un pranzo, ma una celebrazione di ciò che va perduto e di ciò che resta nei cuori. Luiz, l’archeologo, brindò anch’egli con noi, rendemmo omaggio insieme all'ultimo pasto del Cinotto e mentre lasciavamo l'osteria, ci raccontava storie del passato, di ritrovamenti e di antichi fasti, come a ricordarci che ogni cosa, anche quelle che sembrano finite, lascia sempre un segno nel tempo.
Così, uscimmo dal Cinotto con lo stomaco sazio e il cuore più leggero, sapendo che avevamo preso parte a qualcosa di unico, un ultimo banchetto condiviso con anime fiere, in un luogo che da quel giorno in poi sarebbe esistito solo nei ricordi di chi, come noi, l'aveva conosciuto.
Edmond Dantes
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20 Settembre 2024
10,0